Le Lavandaie




"...nel 1872 erano 369 lavandaie a lavare i panni dei Perugini..."

Qualche panno piccolo si poteva lavare in casa, per il grosso, però, si doveva andare alle fonti comuni: una grande e una piccola.
L'acqua in casa si doveva portare dalle cannelle con le brocche o con i secchi, alle fonti, invece, arrivava con un getto potente, limpido e puro.
Le due vasche, tutte le sere, venivano svuotate e ripulite. La mattina presto le lavandaie ambivano ad essere prime a risciacquare il loro bucato in quell'acqua così trasparente da far vedere il fondo.
Questa era quasi l'ultima fase della lunga e faticosa lavatura che era cominciata due giorni prima. I panni sporchi erano stati portati alla fonte e bagnati nella vasca grande (la piccola era usata solo per i panni delle persone ammalate), insaponati e strusciati con la spazzola dura di saggina, strizzati e poi riportati a casa. Qui i panni venivano sistemati nella grossa conca che stazionava in cucina vicino al focolare acceso: prima le grosse lenzuola tessute a telaio, poi mano a mano i panni sempre più piccoli.
Stecche di legno larghe circa 10 cm. e lunghe 60-70, venivano infilate intorno al bordo della conca e così si creava spazio per tutti i panni. Si stendeva quindi il cenerone (una grossa fitta tela che serviva per filtrare il ranno) e su questo tanta cenere passata prima allo setaccio. L'acqua, già al fuoco nel paiolo, veniva presa appena tiepida (l'acqua troppo calda avrebbe incotto il sudicio), con il pignatto e versata tutta sopra la cenere. Quest'acqua, così arricchita di proprietà detergenti, diventava ranno, filtrava nei panni lentamente e non usciva fino a quando la lavandaia non toglieva il grosso tappo di sughero, foderato di stoffa, infilato nel foro alla base della conca. Il ranno, infatti, si raccoglieva tutto in fondo grazie al piatto di smalto che veniva messo capovolto nel fondo prima di inconcare i panni.
La conca stava sollevata da terra su due mattoni o due grossi pezzi di legno, così che il ranno fuoriuscito poteva essere raccolto in una tinozza e riversato nel paiolo per una seconda scaldatura, questa volta più forte, poi rovesciato nuovamente sulla cenere. Questo procedimento a temperatura sempre più alta continuava per 4-5-6 volte e più, finché il ranno non fuoriusciva quasi bollente. L'ultima bollitura rimaneva nella conca, ben chiusa dal tappo, per riposare: i panni: ora si imbiancavano e si profumavano in quell'ammollo. Solo a notte veniva tolto il tappo e raccolto nel secchio il ranno.
Quest'ultimo ranno serviva ancora, era prezioso: come si potevano altrimenti pulire quelle ballette grezze e sudicie, che, invece, lavate e imbiancate potevano servire per mille usi, o quei calzoni che gli uomini usavano tutti i giorni pieni di frittelle e inzaccherati nelle stalle, o gli stracci che si davano in terra sui mattoni per pulire e disinfettare. Ma c'era perfino chi per lavarsi la testa aspettava il ranno. Fare il bucato, perciò, era una faccenda pesante, faticosa e lunga, ci voleva una salute di ferro, braccia buone e mani grandi e forti, chi era deboluccia o con le mani piccole, non ce l'avrebbe fatta, pur con la buona volontà, a maneggiare quei panni grossi e resi più pesanti perché bagnati.
I bucati venivano stesi sulle ginestre e sui cespugli battuti dal sole ed arieggiati dal vento fino al tramonto. Prima però che il sole sparisse, i panni ben asciutti erano già stati tolti, piegati e avvolti in un telo o in una coperta vecchia pulita, fermata con due nodi e posta sopra la testa per portali a casa.


Comments